08. 09.
1985
08.09.1985
Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vostra vita, le memorie autobiografiche di eventi passati, ma anche i vostri diari intimi giovanili: raccoglieremo questo materiale in una sede pubblica e lo metteremo a disposizione delle generazioni future.
È l’appello che l’Archivio rivolge fin dal 1984 a chiunque possegga uno scritto inedito, da inviare in originale o in copia, scegliendo di depositarlo o farlo concorrere all’annuale concorso.
La selezione è affidata a una Commissione di lettura che durante tutto l’anno legge e discute di diari, memorie e raccolte epistolari fino a scegliere, tra i cento ammessi ogni anno, la rosa dei finalisti da affidare al parere della Giuria nazionale.
Dall’esigenza dell’incontro fra chi scrive e chi legge è nato il Premio Pieve con il suo evento conclusivo di settembre che da un pomeriggio di premiazione, anno dopo anno, si è trasformato in un vero e proprio festival, ricco di iniziative e linguaggi attorno al tema della memoria.
PREMIO PIEVE 2024
Quaranta anni dopo
Tre date separate da due uguali intervalli di tempo scandiscono questa storia. Nel 1944 l’Italia della Seconda guerra mondiale è un campo di combattimento conteso tra gli occupanti nazifascisti e gli eserciti Alleati che risalgono la Penisola per liberarla. Dalle metropoli ai cascinali più sperduti, ogni centimetro di terra e ogni essere umano conoscono l’orrore della guerra, morte e distruzione.
Così accade anche all’abitato di Pieve Santo Stefano, che nell’agosto di quell’anno l’esercito tedesco in ritirata, dopo averlo minato, rade al suolo. A distanza di 40 anni, nel 1984, come per un gesto riparatore sul quale molto si è scritto, proprio a Pieve Santo Stefano nasce l’Archivio dei diari, fondato da Saverio Tutino per raccogliere e custodire la memoria popolare degli italiani. Una memoria che ha nella Seconda guerra mondiale il suo capitolo più doloroso e voluminoso: migliaia di diari raccontano la vita di chi tra il 10 giugno 1940 e il 25 aprile 1945 ha combattuto in Africa, in Grecia o in Russia, di chi ha conosciuto i bombardamenti e le stragi, i tradimenti e le delazioni, la guerra civile e la Resistenza.
Trascorrono altri 40 anni e oggi, nel 2024, le ragioni per cui è nato l’Archivio trovano la più alta e grave delle espressioni: non un cimitero per i ricordi, ma un vivaio della memoria, così come lo aveva definito Tutino. Per molto tempo, mentre l’Italia rinviava i conti con la sua storia e con le sue responsabilità nella Seconda guerra mondiale, mentre l’Occidente coltivava l’illusione che quella guerra non sarebbe più tornata all’interno dei suoi confini, a Pieve si salvaguardava minuziosamente e quotidianamente un patrimonio di memoria che oggi torna indispensabile. Oggi che le guerre sono di nuovo così vicine a noi tutti, abbiamo un patrimonio di memoria sul quale fare affidamento, forse, per comprendere cosa significherebbe, forse, per impedire che l’accettazione dell’inumano dilaghi, forse, per non replicare gli stessi errori che abbiamo commesso 80 anni fa.
PREMIO PIEVE 2024
1944 — Pieve Santo Stefano racconta
Omero Gennaioli Era il sei Agosto, faceva caldo, l’ansia ci dava irrequietezza, non si poteva uscire, perché c’erano i soldati di guardia con i fucili. Verso le diciassette o più, si udirono delle forti esplosioni. Oo…Dio! Cosa c’è? Poi, dalle finestre si vide una grande nuvola bianca che si alzava da fondo al paese in Via Michelangelo. Si iniziava a distruggere il paese con le mine. Mentre una squadra del genio militare continua a far saltare in aria le case di Pieve; le altre squadre continuano il lavoro di minamento. La Pieve era ridotta un cumolo di macerie, con qualche muraglia pericolante, trave per ritto e per traverso. La Pieve per strategia bellica doveva essere distrutta. Perché non ci doveva circolare gente che vedeva e sabotava il minamento delle strade e dei campi. Distrutta, perché nei mille fondi e mille palchi non ci si dovevano nascondere ribelli (o partigiani). Distrutta, perché non trovassero comodo e sicuro alloggio le truppe loro nemiche che venivano in su! Distrutta; perché le macerie impedivano il passaggio di automezzi dei loro nemici e lasciarono il monumento ai caduti. Soldato con baionetta in canna, piazzato sopra un blocco dove sotto stava scritto: di qui non si passa!
Adele Cangi Venendo dal Ponte Nuovo le prime porte eron quelle. Il mi’ babbo che sapeva il tedesco – era verso le quattro e mezzo, le cinque, al mattino – disse: “Figlioli, cercate d’alzarvi perché c’è i tedeschi alla porta che bussono”. Per non falla butta’ giù – che poi dopo ns’è manco più rivista la casa noi – il mi’ babbo scese giù e gli dissero che volevono dormire e mangiare. Il mi’ babbo ci fece alzare a me e alla mi’ pora sorella, al mi’ Nino e Beppe. Quando se fece giorno la mi’ mamma c’accompagnò a Fognano, ci mandò via, perché loro occuparono la casa.
Caterina Manfroni La mattina del 15 Agosto mi fu presentato da un soldato Tedesco un foglio nel quale era l’ordine di sfollare, erano circa le ore 9 e l’ora di partenza era per le tre pomeridiane. Mi accorsi che non esisteva più vie di scampo e mi sentivo un tremito per tutte le membra ed una gran tristezza si impadronì di me così che non potei più trattenere il pianto ed andando fuori di casa mi misi a piangere dirottamente sino a che vedendo gli abitanti vicini che si preparavano dei sacchi e delle valigie allora mi calmai di piangere e pensai anchio che si avrebbe passato tanti pericoli allora andai in cerca del libro della messa e della corona pensavo che il bisogno di pregare non sarebbe mancato.
Elena Gori Il mi’ babbo lo presero e lo volevono amazzare. Sempre con la pistola alla testa e lo accompagnarono nella cantina, si fecero dare il vino, poi si fecero dare il prosciutto e glielo facevano mettere tutto dentro un sacco. Poi quando ebbero raccolto tutto quello che gli pareva, presero questi sacchi, molti che riusciva il mi’ babbo a portarli, glieli misero sulle spalle e lo fecero venire alla nazionale. Ormai noi si pensava: “Il babbo muore, ce l’ammazzano”. E invece fortunatamente, dopo diverse ore, si vede il babbo che ritorna dal fondo della strada, piano piano però, porino, stanco e anche stremato dalla tensione. Dopo tanto dolore s’ebbe anche un po’ di gioia nel vedere tornare il babbo, però s’era rimasti senza niente.
Umberto Santucci Io avendo la possibilità di scegliere, restai a lavorare con i Tedeschi, così dal 12 novembre 1943 fino al 26 luglio 1944 sono andato con gli atri operai a fare camminamenti, trincee e case matte che gli servivano come rifugi. I Tedeschi non scherzavano, e una bella mattina fecero razzia nel Paese prendendo tutti a lavorare: banchieri, farmacisti, dottori, l’impiegato della posta, gli anziani pensionati senza discussione. Tutti raus arbaite che vuol dire “tutti a lavorare” sennò fare caput. Come tanti operai, specie giovani, sempre con la paura che ci portassero via si sperava da un giorno all’altro, che ci fosse la fine di quella guerra, ma non fu così. Io pensavo ma credo che sia stato così per tutti, che si era agli ultimi giorni di lavoro, perché il fronte si avvicinava, e non si andava più a lavorare pensando che fosse una soluzione più semplice ma purtroppo non andò così.
Laudomia Mormii Quelli delle SS ci portarono dal Mercatelli, però nei refugi ci s’aveva poco e niente. Divisero le donne da sé, le giovani da sé e gli uomini da sé. L’omini gli facevon fare le buche della grandezza di una persona, le donne come la mia mamma, la mia zia, le portarono a lavare i panni e a noi ci lasciarono in questa casa. Dopo venne dei tedeschi, dissero: “c’è nessuno che sa mungere le mucche?”. Era l’Annetta Del Bolgia che era una vicina di casa mia. Disse: “io so bona”. La portarono giù, gli fecero mungere questa mucca, poi lei c’era un fontanile e andò a lavarsi le mani e quello gli disse: “ora un po’ d’amore con me”. Questa ritornò su da noi tutta tremante. Come arrivò su arrivaron loro. Lei svenne, la portaron via lo stesso. Due la presero per i bracci, due per le gambe e la portaron via. Noi si rimase lì. Dopo un po’ c’era una sorella, dice: “andiamo a vedere almeno dove l’han portata”. Si trovò giù di sotto, in un letto stesa, però lei non ci disse se gli avevon fatto niente.
Renata Lanzi Quel giorno hanno ammazzato quattro persone insieme al mi’ fratello. Andavano su per questi poggi de Conchi. C’era un babbo, una mamma e il mi’ fratello. Erano insieme, l’hanno fucilati tutti tre. Più c’era un figliolo di questi due genitori, indietro. Lui ha sentito che hanno sparato, è andato avanti per vedere cosa era successo e hanno ammazzato anche lui.
Pietro Gennaioli Erono ‘na ventina di tedeschi. Rimasi sorpreso, sembrava che se dovesson fermare, poi fecero cenno d’anda’ via d’avanti. Fatto altri cinquecento metri, seicento, lasciato la strada statale per anda’ giù verso l’Ancione si sentì sparare. Dopo si seppe che i primi due a esse’ morti erano di Caprese, certi Romolini.
Stefano Graziotti Decidiamo di passare il fronte la mattina presto all’alba si prese la nostra poca roba e trovammo un carretto la caricammo e si partì. Ma i tedeschi dalle montagne ci avevano visti e cominciarono a sparare granate mi ricordo che per ripararci ci buttammo uno sopra l’altro dietro il cancello della Laura Mercatelli parecchie granate cascarono davanti alla Madonna dei Lumi e lungo la strada che era tutta minata. Ci fu un momento di tregua e si partì di corsa stando attenti a non pestare le mine quando fummo giunti alle Salaiole incontrammo le prime camionette di soldati alleati che ci portarono a Sansepolcro.
Grazia Cappelletti Quando fummo giù in cucina, che c’era la scala di legno, cominciarono a sparare come matti. Me lo ricordo: uno alto, moro, con i capelli tutti lisci, sopra la madia tagliava il lardo, un altro beveva sempre dal fiasco di paglia. Tra i tre o quattro che erano ubriachi fradici, uno non lo era. Ed era un tipo piuttosto grassottello, alto, con una faccia rubiconda e due occhi azzurri, il quale se ne accorse di quello che stava succedendo, perché quelli ci avrebbero assaliti tutti. Quelli non guardavano più nessuno, né vecchi, né giovani. Ci aprì lo spiraglio dell’uscio e ci fece scappare. Leonora Palazzeschi Noi per non farci portare via si era andati via all’improvviso portando poche cose perciò una mattina presto io e mia sorella Marietta siamo tornate in Paese per prendere qualcosa da mangiare nella mia casa situata vicino al Ponte Vecchio. Si era appena arrivati che sentimmo delle forti esplosioni che venivano da un’altra parte del paese. Noi fuggimmo spaventate verso la collina del podere Gioiello e da lì potemmo vedere innalzarsi delle grandi colonne di fumo e detriti stavano iniziando a fare saltare le nostre case.
Leonora Palazzeschi Noi per non farci portare via si era andati via all’improvviso portando poche cose perciò una mattina presto io e mia sorella Marietta siamo tornate in Paese per prendere qualcosa da mangiare nella mia casa situata vicino al Ponte Vecchio. Si era appena arrivati che sentimmo delle forti esplosioni che venivano da un’altra parte del paese. Noi fuggimmo spaventate verso la collina del podere Gioiello e da lì potemmo vedere innalzarsi delle grandi colonne di fumo e detriti stavano iniziando a fare saltare le nostre case.
Amelia Dalla Ragione Noi quando ci portaron via, la sera, ci caricaron di notte perché di giorno avevon paura degli apparecchi. C’eran tre soldati in gabina e tutto pieno de persone di dietro. La mi’ sorella, che era più piccina di me, aveva nov’anni. Uno de quei tedeschi mi faceva: “Tu venire qua co mea, co mea”. Voleva che andassi in mezzo a loro. Io ero grande, per l’età ch’avevo ero robusta, ero formata. E sicché la mi’ sorella, quando vide che mi voleva porta’ de là, lei montò su e gli pestò le mani. I pestoni che gli diede in quel camion, roba da fasse ammazzare! Eppure non gli fece niente, e a me non mi ci portò di là.
Michele Pilotti A tarda sera entriamo in Pieve Santo Stefano che ci si presenta in una visione quasi spettrale. È tutta un cumulo di macerie solo il palazzo municipale, la chiesa con la canonica e altre poche case sono state risparmiate dai tedeschi in ritirata i quali hanno minato e fatto saltare il centro abitato. Il parroco, don Attilio Rivoltella e la sua vecchia madre ci accolgono in casa, ci ristorano con latte e pane toscano e offrono l’unico letto disponibile alla sorella Maria. I quattro maschi dormono per terra, su di un giaciglio improvvisato, un vecchio tappeto della chiesa; per coperta quelle del camioncino unto di olio lubrificante.
Terzilio Maidecchi Sono tornato, dunque, al mio paese – se così poteva ormai chiamarsi quell’ammasso di “cocci rotti”, intramezzato da qualche fortunato rimasuglio sgangherato -, ed ho cercato tante cose fra quelle macerie: le persone care, la mia casa, le reliquie della mia infanzia e, naturalmente, fra queste, anche la mia scuola. Non trovai quasi nulla, come nulla avranno trovato molti di voi, moltissimi altri nel mondo … Qualche muro diroccato; qualche corridoio appena riconoscibile; un angolo di aula senza tetto; qualche vecchia pianta mutilata agli angoli di un cortile, che solo la buona volontà sapeva riconoscere per quello dei giuochi d’allora: tutta lì la mia scuola elementare. Ci sono rimasto poco tempo in quel putiferio. Le cose morte, danno sempre un certo senso di repulsione, quasi di collera. L’uomo, qualunque sia la sua età, ama tutto ciò che appare giovane, bello, nuovo, ridente, primaverile: c’è tanto tempo più tardi per riflettere sul desolato panorama dell’inverno…
Vittorio Rigoni Piano piano cominciarono a ricostruire, magari costruivano male perché non c’era i materiali, non c’era niente. Sassi ce n’era tanti, che da tutte le parti avevano rubato tra quello e quell’altro. Gridavano perché “m’hai preso i miei sassi”, quell’altro gridava “m’hai preso i miei sassi”. Gridavano fra di loro perché gli avevano preso i sassi che erano la su’ casa. Io avevo il cuore secco, avevo visto tutto disastrato così, e dicevo dentro di me: “Io so’ giovane ancora”. Io sapevo murare, facevo il muratore, cominciai a lavorare. Comprai una casa.
Remo Rosati Quando di casa mia giunsi all’ingresso qualsiasi potea entrar senza permesso. Con rabbia maledii quelle persone, che fecion tutto ciò senza diritto. Smantellando, impiantiti ed affissione, che dalle stalle si vedea il soffitto. Se pure in preda alla disperazione trovai la forza di tirar diritto. E nella linia (linea Gotica) sopra a casa mia ritrovai c’iò che avean portato via. Insieme a nostro zio che rientrato, era di noi qualche giorno avanti. Tanto a sinistra che sul destro lato, si cercavan le cose importanti. Se ben fosson ridotte in brutto stato per farle nuove, non s’avea contanti. Che un piatto, e una forchetta arrugginita, andava ben per riprender la vita.
Giulia Fabbri I miei ricordi nascono dalla Piazza della Collegiata, piccolo palcoscenico creato dalla mano gigante di uno scenografo che ha allineato le piccole case, incastrandole fra loro per fare corona attorno alla Chiesa e al suo piccolo campanile. Le case erano piccole, povere, ma per dare loro una certa civetteria c’erano tendine bianche alle finestre e qualche vaso di geranio e poi, bastava il piccolo porticato degli Olivoni a dare un certo tono alla Piazza. In quella Piazza c’era un mondo, il piccolo grande mondo dei miei pochi anni. Io sono stata sradicata dal mio paese quando avevo 6 anni e le piccole povere cose di quel tempo, mi hanno accompagnato sempre. Il mio piccolo paese è quello della mia memoria e per niente al mondo accetterei di vederlo cambiato in qualche cosa di diverso, di più efficiente e moderno. La polvere, lo smog, il cemento sono di un’altra terra, di un pianeta dove io mi sento confusa e soltanto nel mio piccolo paese, così come l’ho lasciato, io posso ritrovarmi.