La mattina, quando mi preparavo per andare a scuola, mi bastava chiudermi la porta di casa alle spalle per dimenticare tutta quella realtà fatta di ricordi dolorosi e non, e di quell’uomo solitario che mi guardava uscire con una espressione di stupore e di incredulità. Fendevo l’aria, camminando con passo svelto, determinata a buttarmi in quella nuova realtà ad ogni costo. È lungo il percorso che deve compiere Albertina per raggiungere questo stato d’animo e ciò che sottende: il lavoro in una scuola materna, uno spiraglio di emancipazione e libertà. La storia della sua vita inizia in salita, la madre muore nel 1941 quando lei ha solo 4 anni e da quel momento cambiò tutto. Mio padre non era più un sottufficiale felicemente sposato con prole, ma un povero vedovo oberato da quattro figlie e il problema principale fu a chi affidare le figlie mentre era al lavoro?. Inizia la trafila dei collegi, prima dalle Orsoline a Modena poi a causa dei bombardamenti il trasferimento a Ligorzano, in uno stabile che viene occupato dai tedeschi dove la guerra si rivela Una buca più che una trincea macchiata di sangue dove venivamo portate a pregare il partigiano ferito che per tutta la notte aveva chiesto aiuto prima di morire. Una macchina che appariva d’improvviso su una strada secondaria con un uomo alla guida con gli occhi sbarrati e scorgemmo dietro un tedesco in motocicletta con il fucile spianato che l’obbligava ad andare avanti. Albertina racconta le piaghe della guerra civile che coinvolgono la sua famiglia, parenti uccisi dopo l’armistizio perché ritenuti collaboratori dei nazisti si diceva che la zia Bianca era stata buttata nella fossa che ancora respirava mentre le gettavano la terra addosso, mio zio lo avevano picchiato poi gli avevano sparato. E il non facile rientro a Milano dopo la pace, avere la luce per poche ore al giorno, mangiare potage di farina di piselli strana pappa che mandavamo giù a fatica, vestirsi con stoffe U.N.R.A.; e a turno avere una per anno un cappotto o abito nuovo. Ma quel che manca più di tutto è l’armonia in famiglia: il padre impone regole rigide in casa e il nucleo si sgretola, la sorella maggiore Elisabetta scappa e Piera, malata di depressione, si suicida nel 1956. Albertina che a volte soffre di disturbi di epilessia minor e stenta negli studi, sarebbe destinata a lasciare la scuola per custodire la casa ma si ribella: ama leggere e scrivere, sa di avere qualità e lotta per ottenere un diploma magistrale per la scuola materna. È il primo passo verso una rinascita che fatalmente passa anche attraverso la morte del padre, nel 1958, e un legame sempre più stretto con l’ultima sorella che le è rimasta a fianco Cominciammo così la nostra vita di donne libere, io avevo 21 anni, Anna 24. Le prime socializzazioni, qualche festa, gli spettacoli a teatro, una metamorfosi da portare a compimento con la conquista di un posto di lavoro nel mondo della scuola che Albertina, malata di tubercolosi, ottiene con grandi sacrifici. Gli eventi della società milanese di allora mi furono favorevoli. Milano in quel periodo era strapiena di bambini, visto che tantissimi italiani del sud immigravano al nord per trovare lavoro. Si decise di formare classi di 50 bambini invece dei soliti 35 e di aprire altre sezioni. Le classi esistenti non bastavano alle richieste d’iscrizione. Fu la mia fortuna e a settembre ottenni le sei ore. Albertina continua a fendere l’aria, incontra Sergio e se ne innamora, nel 1972 nascerà Irene.