Giuseppe Trinchillo

Come il Signore volle

memoria 1943-1944
nato a Calvizzano (Napoli) nel 1900, morto nel 1948

Scesi giù vi era un carabiniere italiano di servizio dal quale ebbi le prime indicazioni sulla nostra sorte; mi disse che il giorno dopo con un treno speciale saremmo dovuti partire per un campo di concentramento a Mantova. Portai su la notizia e li vidi più avviliti che mai. Novembre 1943: l’Italia è occupata dai tedeschi e Giuseppe Trinchillo, ex capitano dell’esercito, è alla guida di un gruppo di sfollati composto dalla sua famiglia allargata e da altri nuclei familiari amici, fuoriusciti da Napoli dopo lo sbarco delle truppe Alleate a Salerno e la liberazione della città. Dalle sue cronache frammentate di quei giorni difficili, ci giunge l’eco di violenze subite dagli occupanti nazisti e della cattura avvenuta a Scauri: lo spettro di una deportazione in Germania scampata grazie a una coraggiosa fuga ordita tra Priverno e Fossanova. Ai fuggiaschi si spalancano le porte di Roma, città occupata e affamata ma nella quale è possibile dispiegare le energie buone del mutuo soccorso, della solidarietà popolare, dell’arte di arrangiarsi per sopravvivere. Tra richieste di sussidi e peripezie burocratiche, Giuseppe compone un manuale di sopravvivenza nella Roma del ’44 dove prevale l’assillo quotidiano di soddisfare i fabbisogni alimentari della sua vasta famiglia la vita era carissima, a mangiare fuori una sola volta al giorno occorrevano 7- 800 lire non certo adattabile alla nostra borsa e così continuavamo ad andare all’opera assistenziale, ma era una tortura. Lontanissimo dalla nostra abitazione, si doveva fare un po’ di fila, poi attendere che vi fossero i posti a sedere, per mangiare sempre la solita roba, insufficiente per i bambini ed insufficientissima per noi e così compravamo qualche cosa per sopperire all’appetito, da mangiare per cena. Pane al mercato nero e qualche volta anche la carne e pasta; ma per cuocerla un vero problema; la padrona della pensione non voleva che si accendesse fuoco in camera e noi con una fornacetta a carboni chiusi dentro per paura che il fumo ne facesse accorgere, preparavamo qualche cosa da mangiare. Non dico la pena quando fuori pioveva e dovevamo recarci a mangiare alle cucine economiche, mal equipaggiati soprattutto nelle scarpe e senz’ombrelli, facevamo davvero pietà. Più avanti Giuseppe e i suoi familiari e amici ottengono in affitto a buon mercato un’ampia casa a Corso Trieste, dove si trasferiscono a vivere in venti, con dieci bambini al seguito. La vita è un caos, ma con gli sforzi profusi sarebbe anche accettabile se non arrivasse un duplice lutto a sconvolgere la penosa esistenza della comunità. Nel maggio del ‘44 due cognati di Giuseppe perdono la vita: Antonio per i probabili postumi di un calcio in testa ricevuto da un tedesco durante la cattura a Scauri, mentre la disgrazia accorsa all’ingegnere è rimasta avvolta in un fitto mistero; è vero che le sofferenze, le privazioni, le preoccupazioni, la paura e tutto quanto ho precedentemente accennato l’avevano indebolito il cervello, ma non ci è stato chiaro se dovuto a disgrazia od a suicidio. Americani e inglesi stanno per entrare a Roma, ma per la famiglia di Giuseppe anche quel giorno glorioso avrà un sapore amaro avevamo sofferto e sperato tanto per ben 8 – 9 mesi, alla vigilia della nostra liberazione fummo colpiti da sì grave sventura e non ne potemmo neanche gioire, anzi al pensiero che potevamo veder loro felici, ci addolorava ancora di più.